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lunedì 20 febbraio 2012

Libri: 'I Vecchi MESTIERI' di Federico Galterio

Libri: 'I Vecchi MESTIERI' di Federico Galterio: Parte della Pubblicazione de 'I Vecchi Mestieri'. Dicembre 2011, Tip. Selene Latina, ISBN 9788890593338 PREFAZIONE In un’epoca di tra...

Pubblicazione 'I Vecchi MESTIERI' di Federico Galterio (vedi Libri)

Parte della Pubblicazione de 'I Vecchi Mestieri'. Dicembre 2011,
Tip. Selene Latina, ISBN 9788890593338
PREFAZIONE
In un’epoca di trasformazioni i cui confini si dilatano ogni giorno sempre più, un libro di recupero delle memorie (e soprattutto di ricostruzioni di arti e mestieri) non ci può lasciare nè indifferenti nè insensibili.   E’ forse il modo più autentico per ritessere quei legami tra generazioni che in ogni istante si assottigliano sempre più, vuoi perchè siamo distratti dalle nuove tecnologie, vuoi perchè per la vita di ciascuno i tempi si fanno troppo stretti, le ore si sciolgono nelle nostre mani senza che ce ne rendiamo conto per correre dietro alle mille occupazioni o familiari o sociali. Il libro di Federico Galterio è come una sorta di laccio che ci tira da un’altra parte non appena ne sfogliamo le pagine.  Riviviamo le fatiche dei nostri progenitori, le lunghe giornate a far la spola per trasportare una cesta dalla campagna alla propria abitazione. Ogni gesto, ogni opera è un atto di socialita’ condivisa, perchè in ognuno c’è la consapevolezza che altri aspettano la fine del nostro lavoro perchè qualcun altro possa riprenderlo là dove ci si era fermati. È un libro che nel suo intimo intento ci vuole ridire che quella era una concertazione di volontà collettive, ove i figli si avvinghiavano ai padri e questi a quelli per una promessa continua di sopravvivenza, vissuta con una fede religiosa semplice ma incrollabile. Il lavoro e le ore liete, il sudore mescolato con le poche e fugaci gioie campagnole: questa era l’Italia di appena un secolo fa e anche meno. Il libro si dipana con la trascrizione quasi certosina degli strumenti linguistici originali e recuperati dall’Estensore grazie alla tradizione orale e, in seconda battuta, su quella scritta. I riferimenti sono corredati anche da proverbi e, di tanto in tanto, collegati ai vari temi da poesie, a testimonianza di una vivace tessitura del lavoro ricostruttivo messo in atto dall’Autore. Certo, dopo la lettura della lavorazione delle olive, credo sarebbe opportuno inviare ai giovani un messaggio di questo tipo: sarebbe meglio una bruschetta (di pane di grano di antica macinatura) inzuppata di olio extravergine  del nonno che una spalmata di nutella. Attraverso la riproposizione di un mondo sano e genuino l’Autore ha compiuto un atto d’amore nei confronti della gente della sua terra.
Scrittore Michele Graziosetto
TRADIZIONI
Le tradizioni che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora Roccasecca dei Volsci sono “semplici”, fatte di gesti e di riti quotidiani, tanto da suscitare la curiosità e l’interesse di coloro che vanno in cerca di cose nuove, di cose rare. Ho cercato di scavare, di penetrare nei ricordi più lontani, nella memoria dei più anziani, dei nonni del paese, durante gli anni universitari, per riportare alla luce quelle usanze, quelle tradizioni che per i nostri antenati sono state le cose più belle della loro vita, che hanno suscitato in loro tante attese, tante gioie e tante speranze. Esse hanno avuto il potere di rompere, sia pure di tanto in tanto e, per breve tempo, la monotonia della vita paesana. Il piccolo centro collinare, allora privo di ogni conforto, di ogni servizio sociale, ha trovato nelle tradizioni quei motivi capaci di rendere la vita bella, socializzante e il lavoro, non una condanna, ma fonte di benessere e di gioia per tutti. Va un sentito ringraziamento a Giuseppe
Papi, cultore di storia locale, col quale abbiamo condiviso l’interesse, l’amore per il Paese,che mi ha fatto rispolverare, rivivere e pubblicare uno dei “sogni” che conservo nel mio cassetto.
L’Autore
INTRODUZIONE
I vecchi mestieri del dopoguerra non sono più nella memoria del popolo. Con la presente documentazione descrittiva e fotografica miro a far rivivere negli anziani, a far affascinare i giovanissimi, a far apprezzare la fatica, la saggezza e l’impegno dei nostri nonni che, con semplicità, affrontavano le difficoltà della vita del momento storico. In una economia come quella del dopoguerra nei paesi di collina, rare erano le possibilità di scelta del mestiere, se non il frantoiano, la fornaia, il mugnaio, il mietitore, la tessitrice, il porcaio, che descrivo in questa pubblicazione...

IL TUANARO 1
La ‘tuana’ era una mandria di maiali, il ‘tuanàro’ era il porcaro, ovvero, il guardiano.
Il ‘tuanàro’, ogni anno, la sera della vigilia di S.Lucia, ossia la sera del 12 dicembre, ‘ficeva ittàne
gli banno dagli guardiano dogli Comune’, cioè incaricava il banditore comunale a rendere
noto alla popolazione, per le strade e piazze, l’inizio del suo nuovo anno pastorizio (dal 13 dicembre al 12 dicembre dell’anno successivo). Le massaie, le donne che avevano il governo della casa (in paese, allora, erano quasi tutte), allevavano uno o due maialetti da ingrassare e poi da macellare. Dai primi mesi di vita, dopo lo svezzamento, la massaia portava il suo maialetto alla ‘tuana’, cioè affidava il suo maialetto ogni giorno, dalla mattina alla sera, al porcaro, fino al mese di ottobre...
Scrofa che allatta i maialini

1 Il Tuanaro era il guardiano della mandria di maiali.

IL MONDANO e il Mondanaro
Frantoio e Frantoiano
(dal Racconto inedito dal titolo: “Una Maestra al primo contatto con la Realtà contadina”
...Siamo negli ultimi giorni di ottobre. I contadini hanno cominciato araccogliere le prime olive fatte cadere dal vento: non sono ancora mature, sono verdi e soltanto qualcuna è violacea o nero-lucida. Nonostante la resa assai scarsa, le contadinelle sono affaccendate e riportano a casa, sera per sera, cesti e piccoli sacchetti di olive. La campagna olearea è ormai iniziata. I ‘mondani’ 6, a trazione animale, sono aperti, hanno incominciato il loro lavoro. Chi passa per i vicoli si sente attratto da questa attività, dal rumore delle macchine, dal tric-trac della ‘pressa’, dalla nuvola di vapore della caldaia che esce da una piccola finestra e dall’odore della ‘ciancia’ 7 che invade l’ariadella zona vicina. Mentre i ‘mondanari’ sono intenti a lavorare, i contadini si siedono vicino alla ‘fornella’, cioè al fuoco che manda in ebollizione l’acqua di una grossa caldaia di rame, della capacità di circa 250 litri. Gli occhi dei presenti sono rivolti all’acqua bollente con ‘gli buzzonetto’
8 che viene versata sulle sporte di strame9 o di cordicelle, poste sotto la pressa, e nell’‘agnolo’ 10
dove viene separato l’olio puro dalla ‘morca’ 11...

6 Mondani: frantoi per macinare le olive.
7 Ciancia: sansa.
8 Buzzonetto: mestolo grosso di rame, rivestito di stagno con manico corto di
ferro, per prendere l’olio dall’ ‘agnolo’ o per attingere acqua bollente.
9 Sporte di strame: dischi di ampelodesma.
10 Agnolo: botte disposta con uno dei fondi aperti in alto.
11 Morca: acque reflue dell’olio.


DALLA SEMINA AL TELAIO
Come introduzione a questo lavoro di ricerca, ho voluto riportare i versi semplici, ma assai descrittivi, del poeta E. Pesce Gorini:
“Il fiore azzurro”
Disse un bel fiore azzurro:
“Il vento mi carezza
con un lieve sussurro;
l’aurora mi regala
brillanti di rugiada,
che il calore del sole poi dirada.
Non profumo gli altari
né mi recano in dono,
in giorni lieti e cari, i bimbi e le fanciulle, sullo stelo fiorisco,
specchio l’azzurro cielo e poi finisco.
E mi tramuto in tela
candidissima e molle,
per l’altare e la vela,
per bendare le ferite
e fasciare il bambino
nudo, nella sua culla:
io sono il lino!”.

LA LAVORAZIONE DELLA LANA
NEI TEMPI ANDATI
Dal vello al vestito
Prima di iniziare la narrazione ci sembra di sentire già l’eco dei versi del poeta Gabriele  D’nunzio, anche se con finalità e intendimenti diversi:
I pastori
“Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde ê come i pascoli dei monti.”
Nei tempi andati, prima di iniziare la tosatura, anche i pastori dei miei monti, delle mie colline,  delle mie campagne portavano il gregge al fiume e lo facevano bagnare più volte per togliere dal vello i residui di letame, di grasso, di terriccio, ecc. Essendo le pecore restìe ad entrare nell’acqua, il pastore spingeva, innanzitutto, la mandria a superare l’ostacolo, immergersi nel fiume portandosi il montone, che, a sua volta, serviva ad attirare tutte le pecore del gregge per rendere più agevole
l’operazione. Quelle che non si lasciavano adescare dall’astuzia del pastore, venivano prese di forza e buttate nell’acqua. Le pecore si tosavano sempre nel mese di maggio e la lana veniva subito aggrovigliata e messa nei sacchi. Qualche giorno dopo la massaia, con le mani, la ‘spizzicava’
per togliervi le ‘lappe’ (piccole bacche pungenti) ed altri elementi eterogenei che col bagno in acqua, non erano andati via. Più tardi, in epoca più vicina a noi, questo lavoro veniva fatto dai cardatori in dialetto ‘scardalani’, che giravano per i paesi con una macchina-cardatrice portatile. Con questa operazione la lana veniva divisa in ‘lanata’, in pennacchi, cioè in batuffoli che si avvolgevano attorno alla rócca per filare. Messa in funzione la rócca, quasi sempre dalle esperte dita della vecchietta, si otteneva un filo sottile per confezionare canottiere, magliettine estive, sciarpette, calzini ed altri capi raffinati...

LA MIETITURA
Verso la fine del secolo scorso i mietitori indossavano una ‘sàraca’, cioè un càmice di lino  bianchissimo e un vecchio cappello di feltro o di paglia.  Essi lavoravano dall’alba al tramonto e cantavano ed ogni canto era un inno di ringraziamento al buon Dio che riempiva le spighe di grano
o degli altri cereali. A mezzogiorno, i mietitori, stanchi e accaldati, si riunivano per una breve pausa in mezzo al campo e, tra battute spiritose e lunghe risate, consumavano il minestrone di pane e verdure che la pia massaia distribuiva a tutti con la gioia e il sorriso. La sera, un po’ prima
del tramonto del sole, i mietitori sfiniti, ma contenti, cercavano di vincere la stanchezza con canti e balletti, accompagnati dall’organetto a tracolla. Dopo la lunghissima giornata lavorativa si avviavano a piedi sui pendìi della collina verso il paese, percorrendo diversi chilometri di strada in
parte scoscesa e dirupata. Ma, prima di giungere alla vetta, sostavano in una zona detta ‘via Larga’ e lì di nuovo cantavano e ballavano in piena armonia. Riprendevano poi il cammino al suono dell’organetto. In piazza, davanti alla Collegiata di S. Maria Assunta, di nuovo balli e canti.
Qui un sacerdote, il Canonico don Alessandro, li rianimava con buone e sante parole. Ai primi del 1900 si abbandonò la ‘sàraca’ di lino che venne sostituita da un sacchetto di tela di color celeste chiaro. Vigeva allora una consuetudine che praticavano soltanto i ‘campieri’, cioè i proprietari
di terreni del luogo che coltivavano a cereali...

90 ANNI FA…
...dalla ‘trita’ 64 si è passati alla trebbiatura.
La trebbiatura come la battitura e la tritatura iniziava verso il mese di luglio, subito
dopo la mietitura. Innanzitutto si formava l’aia (in dialetto ‘aia’) con tanti e grossi mucchi di covoni
di grano, di biada, di orzo, intorno ad uno spiazzo abbastanza ampio per fare stazionare la trebbiatrice e il relativo motore. Un operaio era sopra la trebbia, vicino alla bocchetta, dove venivano introdotti i covoni con una abilità ed agilità ammirevole. Poco distante c’era
un altro operaio, spesso una donna, che raccoglieva i cereali e tagliava con un falcetto i ‘vàvuzi’ 65 dei covoni che venivano alzati da terra, dall’aia da un altro operaio con una forcina. Vicino c’erano
i padroni del cereale o altri operai ancora che avvicinavano i covoni da trebbiare. Il padrone della trebbiatrice, invece, con i sacchi dalla parte anteriore, dove si trovava un’apposita bacchetta, raccoglieva i chicchi di grano, orzo e biada e, infine, in base alla quantità delle ‘quarte’,
tratteneva il compenso che gli spettava, pari allora a una ‘quarta’ su ogni quindici...
Il molino
Oltre 90 anni fa, a Roccasecca-centro, non esisteva nessun molino e, per macinare il grano ed altri cereali, si doveva andare in località ‘La Fontana’, dove c’era un piccolo molino ad acqua, che funzionava soltanto nel periodo delle grandi piogge, d’autunno e d’inverno o alle Mole Abbadia, Mole Comuni, Mole Sante, in territorio del comune di Priverno ed a Prossedi. Il molino di ‘la Fontana’ disponeva di un piccolo laghetto artificiale e, ogni volta che doveva andare in funzione, si faceva cadere l’acqua sulle pale, le quali mettevano in movimento l’asse rotante, e, questo, a sua volta, ‘le prète’ 67. I resti di quel molino sono ancora visibili e tutta la zona vicina, circostante, è denominata ‘La Mola’. Durante la seconda guerra mondiale, quando la farina e il pane erano
razionati, quel molino, dopo tanti anni, tornò a funzionare, a macinare quei pochi cereali che poche famiglie disponevano, soprattutto il granoturco per la polenta. Il pane allora era veramente il re della mensa. Oggi quel molino non è più in funzione, è un cimelio di cui gli anziani parlano spesso. Finalmente nel 1925 a Roccasecca-centro fu installato un molino elettrico con due macine: una per il grano ed una per l’orzo, la biada, le fave e il granoturco...

DEI VECCHI FORNI FINO A 90 ANNI FA
I vecchi forni internamente erano circolari e potevano contenere 80 pezzi di pane per ogni infornata: pagnotte, pizze, canisciuni (calzoni imbottiti), ‘ventie’, ‘ciavarégli’, ‘pizzerósce’, ‘pizzòle’, ‘pizze do ‘ndrommappa’, ‘pizze có gli pompotòro’, ecc. Il piano su cui si introducevano le varie forme di pane era di mattoni di terracotta collocati in posizione orizzontale, mentre nella volta, nella
superficie concava, i medesimi mattoni refrattari erano posti in posizione verticale. Una porticina di forma quadrata in ferro era davanti all’altezza di un metro dal pavimento del locale. Questa piccola apertura veniva chiusa durante la cottura del pane o dei dolci...